Mamavegas
Rome, Latium, Italy | Established. Jan 01, 2005 | INDIE | AFM
Music
Press
C'è che se nasci con dentro gli occhi i riflessi della rugiada e il tonfo degli alberi secchi che cadono giù al fiume, certe cose non puoi proprio evitarle. Ed è così che i Mamavegas, dopo quattro anni passati a distillare note e rubare f(r)asi da quello spettacolo che è la Natura rigogliosa e selvaggia, vanno incontro a questo primo disco con la stessa dose di grazia e sentimento che solo in pochi. Nasce tutto lì, tra i passi di montagna e le vallate, e tutto lì ritorna, come in un sentiero eterno che disconosce sempre le vie per l'ultima scalata.
"Hymn for the bad things" o, più semplicemente, undici canzoni come undici fiori raccolti su un crinale steso alla mercè delle intemperie. Sarebbe stato facile giocare al rialzo su quel topos ormai consolidato di neo-folk che suonava sui primi tre EP. Invece, come accade sempre quando dentro esplode l’uragano, si è sentito l’impellente bisogno di fare piazza pulita dei dubbi e rimettersi in totale discussione. Non deve essere stato facile, partire da un’idea nata in seno a un evento luttuoso, e poi costruirci d’intorno, con lo sguardo pronto a perdersi in mille direzioni, un viaggio di quella che è una lente all’incontrario dove scorgere la faccia altra delle emozioni.
Un percorso circolare che si snoda su tappeti di chitarre e vorticose aperture di spazio, e una voce che, con la misura giusta dell’empatia, si fa carico di esorcizzare tutto l’ammasso di paure, fantasmi e buchi neri connaturato al carico emotivo di questi pezzi. Il post-rock come, ancora una volta, luogo dell’anima, dal quale prendere le mosse, passando per i rimandi nordici di band seminali come Broken Social Scene e Death Cab For Cutie, planando su un continuo flow di storie e pensieri, che trovano la propria linea di confine solo nell'istante esatto in cui ci si scioglie e si cade nella morsa dell'istante successivo. Un album forte, con una sua identità precisa, prima che una semplice somma di canzoni. Che per giunta, nel 90% dei casi, potrebbero tranquillamente andare ad occupare le caselle delle vostre playlist di fine anno, per come sono singolarmente concepite, spiraliche, un continuo gioco a tagliare ed infettare le proprie radici, spiazzando ad ogni curva. Da "Mean and Proud", messa in apertura come dichiarazione di suoni e d'intenti, a "Sooner or Later", bellissima in quell'incidere che stringe nei vuoti dell'assenza, o "The Stool", che quando toglie la testa fuori dall'acqua è un'epifania di glockenspiel e colori, fino a "Tales from 1946", il pezzo più rotondo e potenzialmente deflagrante.
E così, senza il bisogno di urlarlo a voce alta e di tentare la faciloneria gratuita, questo "Hymn for the bad things" suona come un disco necessario e pronto a brillare di luce propria. Una delle cose meglio riuscite dell'anno, che trasporta i Mamavegas, in attesa della definitiva controprova live, su quello stesso asse di valori e coordinate che in passato vedeva protagonisti gente come Giardini di Mirò, Yuppie Flu, piuttosto che Julie's Haircut o Canadians. Aspettando che anche la distribuzione Rough Trade, possa farne esplodere oltreconfine le gesta, non resta che premere play e capitolarne, sopra una qualsiasi suggestione di melanconia e natura, per l'ennesima volta.
Marcello Farno - Rockit
Chi ricorda quei giorni di nemmeno tanti anni fa in cui il termine indie-rock era sinonimo solo di bellezza e autenticità (Giardini di Mirò o Julie’s Haircut, per fare un paio di esempi) e non - come troppo spesso accade oggi - di fesserie autoreferenziali e modaiole per platee di mezzi (?) cerebrolesi? Ecco, il primo album dei Mamavegas si pone agli antipodi di tutto ciò e riaccende i riflettori sull’unica questione che dovrebbe essere rilevante, vale a dire la qualità della musica: sul piano stilistico ci si trova da qualche parte fra NAM e indietronica (nessuno li ha dimenticati, vero?), ma il sestetto di stanza a Roma ha evitato la trappola del tedio organizzando piccole sinfonie pop dove ogni elemento ha il profumo dell’eleganza mai stucchevole e di un’emozione cui le infiorettature non hanno sottratto purezza. Undici gioiellini dai quali lasciarsi cullare, che non a caso stanno ottenendo consensi all’estero (dal prossimo febbraio Rough Trade distribuirà il disco in Europa): se cercate uno slogan, chiamatele pure “canzoni indie contro l’indiesfiga”.
Federico Guglielmi - Stemax Coop.
Le premesse c’erano tutte, le promesse sono state mantenute. Tre EP (“This Is the Day… I See” e “Icon Land”, più “The Beauty EP” che ha anticipato l’album), li hanno imposti all’attenzione di critica e pubblico per la loro meravigliosa raffinatezza, ed ecco finalmente l’atteso debutto full lenght dei Mamavegas, undici tracce legate da un unico concept, che sembra cerebrale e invece è solo vitale: l’idea è quella di affrontare temi universalmente positivi (tra cui l’Amore, la Felicità, la Bellezza, la Speranza), proponendoli dal punto di vista delle paure da esorcizzare. Perchè concretizzare gli ideali di bellezza, amore, speranza e felicità è un compito arduo fatto di costruzione e consapevolezza, e porta con sé innumerevoli paure che rischiano di far franare tutto. Così, in questo album, c’è tutta la bella e dolorosa forza nel tentativo di affrontarle, le proprie paure, in nome di una vita da vivere pienamente. Nella loro delicatezza, i suoni sono pieni e rotondi, corposi e mai invadenti, costruiti per andare dritti al cuore.
“Mean and Proud (Beauty)” non per niente è anche un video girato in Maremma, nel Parco dell’Uccellina, uno dei luoghi più belli e selvatici d’Italia, e il testo mette in guardia contro il cinismo: quando si perde il contatto con la bellezza e con l’innocenza, il rischio è quello di diventare ‘mean and proud’, orgogliosi e cattivi. Così come in “Tales from 1946” l’Amore rischia di annegare tra le paure che lo rendono un’ossessione. Gli altri concetti affrontati con questa sorta di lente al negativo, sono il Tempo, la Gente, la Fede, la Natura, la Fiducia. E i Mamavegas sono riusciti ad evitare ogni concettualismo attraverso testi limpidi e un suono terso come un cielo d’estate, di quelli con le nuvole bianche che corrono: l’uso delicatissimo dell’elettronica sostiene le voci sovrapposte per creare un’atmosfera di necessaria e intima ricerca di consapevolezza, profonda levità. Sempre, quando si riesce a conciliare gli opposti, i risultati sono ottimi, perchè si evita la fallace prigionia del dualismo.
Così, quello dei Mamavegas è un pop d’autore, nordico nella limpidezza, e mediterraneo nella passione, levigato nei suoni e ruvido di concetti, cerebrale eppure capace di afferrare le viscere. Tornando alla Maremma che hanno scelto per il video di “Mean and Proud (Beauty)”, il Parco che si affaccia sul mare è popolato di cinghiali e daini, volpi, tori e vacche dalle corna a lira, ed è selvaggio e delicato al tempo stesso. Così questi “inni alle cose cattive” hanno l’eleganza dei daini, la forza dei cinghiali, l’abilità della volpe, la potenza dei tori e la pacatezza delle mucche maremmane. Non per niente leggenda vuole che i Mamavegas siano nati in un bosco, e con questo bagaglio di naturalezza musicale parlano di umano troppo umano nutrendo (in noi) una doppia speranza: interiore (che sia musica che accompagna i nostri giorni di incessante ricerca di libertà) e esteriore (che sia musica che targa e allarga l’Italia). Non per niente, dopo l’uscita italiana il 16 novembre, a febbraio 2013 uscirà anche la versione internazionale di Hymn for the Bad Things distribuita in Europa (Germania, Austria, Svizzera e Spagna) da Rough Trade.
Tutti i brani dell’album sono belli, ma c’è un poker da brivido: Beauty (“Mean and Proud”); Love (“Tales from 1946”); Faith (“Winter sleep”); e la title track Hymn (“..for the bad things”).
(David Drago) - Shiver
Nel mare magnum che è diventato quello dell’internet e del mondo musicale che si sfida a colpi di celodurismo e broncetti, si fanno notare i Mamavegas. Ieri ne hanno già parlato loro, in prima persona, della produzione del disco, sono qui solo per aggiungere cosa ho provato nell’ascoltarli. Tempo fa, devo ammetterlo, leggendo qua e là, il loro nome non mi aveva granché colpito, anzi; avevo pensato ad un progetto musicale trito e ritrito della solita band italiana che suona da qualche parte e poi finisce al concerto del 1 maggio (senza nulla togliere eh). Ma ho un brutto difetto io: delle volte mi faccio delle idee tutte mie senza una base solida. Così sono andata a sbatterci la testa contro, avevo sbagliato tutto. I Mamavegas sono una band dalle melodie folk, jazz e post rock, composta da sei teste, dove tutti suonano, tutti cantano e tutti mettono mani ai testi. Ognuno di loro proviene da realtà musicali differenti (chi dal jazz certo, chi dall’elettronica e molto altro), ma questo fa sì che si sia rafforzata l’armonia. Attualmente vivono e operano a Roma, ma si son spostati da varie città, da cui hanno assimilato suoni e paesaggi che rendono idealmente in musica. Spulciando, scopro che avevano già raggiunto un discreto successo prima con l’ep del 2010 “This is the day! I see” e poi con quello del 2011 “Icon Land” pubblicato dalla 42 Records, e come vi avevamo già anticipato quando abbiamo introdotto i teaser trailer della lavorazione al disco. Il 16 novembre è uscito “Hymn for the bad things”, primo disco, pubblicato sempre dalla 42 Records e Audioglobe. L’album è composto da 11 brani che seguono un fil rouge: temi trattati sin dall’alba dei tempi come l’amore, il tempo, la speranza, il bello, trattate però in maniera totalmente diversa, come il mito della caverna di Platone al contrario, un esorcizzare le paure legate ad ogni esperienza (e questa la rubo direttamente dal loro comunicato stampa, perché era una frase già stra bella così e non la si poteva cambiare!). La formula Mamavegas è ovviamente spiazzante, dato che mescola tanti generi e tante tematiche, e non può che attirare l’attenzione. Sicuramente Roma ha un’ottima scena indipendente, da dove è facile attingere e o comunque dove è data una possibilità per provarci e farsi conoscere. Avendo subiti alcuni cambi di line up, e trovato una direzione, i Mamavegas sono approdati nella scena indie. Le melodie ti prendono per mano per tutta la durata del disco, sempre gradevoli e mai stucchevoli. Suoni decisi, voce del cantante che aleggia sulle note. Uno dei pezzi che mi è piaciuto di più è “Mean and Proud (The beauty)”, per cui è uscito anche il videoclip girato dal regista Iacopo Zanon. Per non parlare di “Blackfire (Trust)” una bella ballata folk chitarra e voce. E vi dirò, mi son commossa. Il brano si apre con chitarre e batterie decise, polifonia di strumenti e voce leggiadra, e racconta di un corpo umano che crescendo perde la sua bellezza per diventare cattivo ed orgoglioso. Da brano a brano si notano tutte le varie influenze musicali che confluiscono in una vela sola; il risultato è di qualità. La scelta di un gruppo italiano di cantare in inglese ha sempre generato alcune diatribe, ma è una scelta che è ricaduta con spontaneità perché meglio si prestava al genere e allo stesura dei testi. Una bella notizia è che questo primo album dal prossimo 23 febbraio sarà distribuito in tutta Europa dalla Rough Trade (mica pizza e fichi). Mamavegas, perdonatemi, mi sono ricreduta su di voi, e adesso ho riempito il mio last.fm dei vostri ascolti. Se andassi a vivere in un bosco sarebbe uno dei primi dischi che porterei dietro. In una parola: emozionante. - See more at: http://www.dlso.it/site/2012/11/21/mamavegas-hymn-for-the-bad-things/#sthash.bnK4z6Z3.dpuf - dlso.it
La forza di un disco sta nel rimanere impresso e, con l’espressione “rimanere impresso” non mi riferisco al canticchiarne un motivetto che per qualche strana ragione del marketing ci rimbomba invasivamente in testa. Mi riferisco alla sensazione di essere stati toccati, in un certo senso anche raggiunti da qualcosa di non ben identificato ma, al tempo stesso, di molto preciso. È qualcosa che va in profondità e non ti abbandona riuscendo a farti entrare in contatto con te stesso.
Questo è “Hymn for the Bad Things”, il primo disco dei Mamavegas. Il lavoro d’esordio, distribuito a giorni in Europa da Rough Trade, e negli Stati Uniti e in Sudamerica da The Orchard, è stato battezzato in Italia dalla 42 Records, casa discografica indipendente diventata sinonimo di qualità. “Hymn for the Bad Things” è più di concept album, è una lente d’ ingrandimento particolare, quasi magica, di quelle che spogliano gli oggetti delle loro corazze permettendoti di vedere la vera essenza delle cose.
Marco Bonini, Emanuele Mancini, Andrea Memeo, Daniele Petrosino, Francesco Petrosino e Matteo Portelli vengono da strade diverse ma, con l’unione delle singole esperienze, hanno dato vita ad una band che sembra essere insieme da sempre, muovendosi nella composizione con coesione e creatività.
Gli undici brani del disco hanno due titoli, quasi a rendere esplicita una seconda anima del brano, che non contrasta con la prima. È come quando ci si ferma a guardare la mezza luna, l’altra metà è al buio ma è sempre lì. I Mamavegas ci raccontano l’altra metà della luna.
La parte strumentale sembra ripercorrere lo stesso tracciato: la musica ti mette nelle condizioni di scoprire la parte vulnerabile, quella che teniamo sempre al buio, che vogliamo nascondere il più possibile. L’elettronica si fonde con gli arpeggi di chitarre, gli archi, i fiati, e la voce sussurrata accompagnando chi ascolta in questo viaggio, senza mai strattonarlo, facendo anche dei passi indietro quando la strada diventa sempre più buia.
Che altro aggiungere? A noi non resta che ringraziarli per il viaggio. - Impatto Sonoro.it
Devo aver letto da qualche parte che la musica dei Mamavegas è perfetta per l’autunno. Io penso l’esatto contrario, cioè che l’autunno possa cristallizzarsi nel tempo al passaggio di queste note. In qualunque stagione ci troviamo possiamo infilarci nelle tasche di “Hymn For The Bad Things” e constatare la caducità delle nostre foglie. Possiamo bagnarci della brina del primo mattino e riscaldarci attorno ad un fuoco acceso, nell’attesa che i rami spogli ci raccontino qualche storia appassita dal tempo. Eppure l’ascolto non copre di facile malinconia; ci sono le chitarre, momenti più affilati e sintetici, ritmi sincopati. Scavando più a fondo viene a galla l’animo romantico di un lavoro che affronta temi universali quali l’amore, il successo e la bellezza mettendone in luce le difficolta nel gestirli nella quotidianità della vita.
Da qui tutti gli autunni possibili, di quelli che si affrontano da soli con se stessi alla luce tenue di un tiepido raggio di sole che illumina le fragilità e i dubbi. Strano viaggio quello di un album che deve molto all’indie rock di matrice USA dei primi Death Cab For Cutie o dei Pinback senza rinunciare alle carezze di momenti più intimi. Il cantato completamente in inglese (forse non si era capito ma sono italiani), rimanda agli ultimi Yuppie Flu e questo afflato internazionale sarà presto premiato con una distribuzione europea per mano della Rough Trade. Grande vanto per una band emergente suppur con un discreto background di esperienze dei sei musicisti coinvolti. Che sia autunno fuori o dentro di voi poco importa, i Mamavegas saranno la più bella condanna per i vostri pomeriggi di pioggia. - IFB.com
Che i Mamavegas siano gruppo particolare (e ci tengano a farvelo sapere) lo si nota subito: basta dare un’occhiata alla copertina dell’album e ascoltare un paio di canzoni per potersene convincere. E se questo non bastasse, potete leggere la loro biografia per capirci qualcosa in più e rimanere affascinati dal loro mondo. Raccogliendo musicisti provenienti dai più disparati ambiti musicali infatti (jazz, elettronica, colonne sonore solo per citarne alcuni), questi ragazzi di Roma hanno deciso di seguire un onda piuttosto fortunata ultimamente, la “folktronica”.
Beh, il solito gruppo hipster che fa musica hipster, direte voi. E invece no: al di là dell’ ‘immagine’ potenzialmente banale che traspare, c’è anche molta sostanza in questo caso. Ci sono idee brillanti, e c’è talento per realizzarle.
“Hymn for the Bad Things” (in uscita a febbraio in Europa) è un concept album nato dal desiderio di rivisitare i temi più positivi del quotidiano in una chiave nuova, “una lente al negativo che ha l’intento di esorcizzare le paure insite in ognuna di queste esperienze”.
Un altro punto di vista insomma, e un proposito niente male. Per realizzarlo, i Mamavegas mettono in campo creatività e intelligenza, a partire dai titoli delle canzoni. Questi sono infatti corredati di una sorta di “secondo titolo” tra parentesi, associato al primo, creando un campo semantico teso ad unire due concetti apparentemente distanti tra loro: suggestivo e d’effetto.
Ma veniamo alla parte fondamentale, la musica. “Hymn for the Bad Things” è un disco che parla all’ascoltatore con una sorprendente tranquillità: pezzi “da camera”, non la tipica cosa che ci si spara nelle orecchie mentre si è sull’autobus, o a tutto volume in macchina per intenderci. Gli accompagnamenti semplici delle chitarre fanno da spalla ad una voce effettata e lontana, con una quasi totale assenza di percussioni che contribuisce a creare un senso di intimità: la “lente al negativo” dei Mamavegas mostra che alcune cose si possono vedere solo così, trasportati in modo lento e dolce all’interno di una realtà adesso differente.
L’elettronica, parte integrante del disco, si accosta con delicatezza agli altri strumenti senza mai essere invadente, ma semplicemente contribuendo ad un percorso sonoro ben architettato; stesso discorso vale per fiati ed archi, usati con intelligenza, riservati per momenti adatti. Nonostante venga da chiedersi se con testi in italiano questo lavoro sarebbe stato ancora più interessante, non si può che concludere che i Mamavegas iniziano bene. Non col botto, questo no: “Hymn for the Bad Things” è più come sedersi sulla riva di un fiume vedendolo scorrere, sentendosi parte di quello scorrere e contemporaneamente osservatore. - rubric.it
È sempre emozionante e meraviglioso trovarsi tra le mani piccoli capolavori di sincerità e brillantezza musicale. E' il caso di "Hymn For The Bad Things", primo album d’inediti dei romani Mamavegas, collettivo di sei elementi dalle più differenti estrazioni musicali.
Rilasciato da 42 Records e distribuito (a partire da Febbraio 2013) da Rough Trade (!), "Hymn For The Bad Things" è un delicato disco di raffinatissimo pop, indie-pop per i compulsivi delle etichette, in cui i diversi background dei sei convivono perfettamente, senza smanie di protagonismo, fondendosi e creando solide sinergie.
L’elettronica danza con le chitarre e con i fiati, s’immerge nelle percussioni e si mescola nuovamente con le voci. Meraviglioso. Per inquadrarli un po’ si devono scomodare nomi come Broken Social Scene, Brian Eno e Sufjan Stevens, mica gli ultimi arrivati. Undici tracce legate indissolubilmente tra loro: un concept sui sentimenti e sulle bellezze della vita analizzati in maniera non comune, negativa, quasi per allontanare quanto di oscuro si annidi in questi nobilissimi sentimenti.
"Hymn For The Bad Things" è un esordio brillante, fresco, pieno nei suoni e negli arrangiamenti. Consigliatissimo. - osservatoriesterni.it
I Mamavegas sono un collettivo romano formato da sei musicisti (Marco Bonini, Emanuele Mancini, Andrea Memeo, Daniele Petrosino, Francesco Petrosino e Matteo Portelli), provenienti da ambiti musicali differenti quali il jazz, l’elettronica e colonne sonore. Il loro lavoro è iniziato nel 2010 con la pubblicazione di un primo EP intitolato “This is the day... I see”, seguito l’anno successivo dal secondo “Icon land”. Caratteristica principale dei Mamavegas è la capacità di saper fondere diversi stili musicali (e di rimando le esperienze variegate dei singoli membri) per ottenere un unico sound sicuramente personale. Ecco dunque che in questo “Hymn for the bad things” si rilevano tracce di pop, indie e folk, un mix legato da un unico concept posto ovviamente alla base dell’opera stessa: guardare a temi universalmente riconosciuti come positivi (tra cui l'amore, il successo, la bellezza, la speranza), proponendoli da un punto di vista insolito, una lente al negativo che ha l'intento di esorcizzare le paure insite in ciascuna di queste esperienze.
Tra i pezzi da segnalare l’ottima title-track, il crescendo dark folk dai toni fiabeschi di “Solid nature” e la ballata “Black fire”. Il disco si avvale della produzione artistica di Giacomo Fiorenza. - rockol.it
“Il primo vero album dei Mamavegas”, come definito dalla stessa band che fa base a Roma, arriva a fine anno, chiudendo in bellezza un’annata musicalmente florida. I Mamavegas, dopo una serie di ep, mettono sul piatto questo disco sulla lunga distanza che ha un marcato sapore internazionale.
La stessa impressione la devono aver avuta anche alla Rough Trade, tanto che “Hymn for the bad things” uscirà a inizio 2013 per la gloriosa label inglese. Per il momento il disco invece è stato pubblicato per il mercato italiano dalla 42records. I sei musicisti per questo loro brillante “primo vero album” hanno messo insieme undici brani densi di fascino sonoro, in cui le parti vocali convivono in perfetto equilibrio con gli strumenti. Anzi gli arrangiamenti sonori, gli intrecci della sezione ritmica, complessi ma allo stesso tempo fruibili, sono fra le tante note positive di questo disco.
Il singolo “Mean and proud” e la successiva “Sooner or later”, arricchita dai fiati, indicano la via maestra che seguirà tutto il lavoro. In ogni brano si ritrovano echi di new wave e pur con tanti richiami la musica mantiene una sua precisa identità. Per esempio “Self portrait in four colours” potrebbe stare senza problemi in qualsiasi disco dei Death Cab for Cutie, mentre “Tales from 1946” rimanda ai Broken Social Scene. - kalporz.com
I Mamavegas, gruppo romano che ama dirsi nato in una casa di montagna, in mezzo a ciò che più richiamano i loro brani… la natura, pur essendo al loro primo album di inediti dimostrano di avere ben chiare idee su come proporsi ad un pubblico che, a mio parere, resta comunque piuttosto “ricercato”. Dunque, certamente non una musica da grande pubblico ma sicuramente ideale per situazioni più intime e “naturali”.
Gli undici brani appaiono immediatamente direzionali a concetti idealistici, utopici per certi versi. I titoli sono sempre accompagnati da un second title che ne sottolinea l’essenza riconducendo, in maniera apparentemente disordinata, a ciò che generalmente non consideriamo con la dovuta importanza, la vita. Un mix di british acoustic rock ed electronic che si fondono per dar vita a brani certamente interessanti dal punto di vista vocale oltre che strumentale ma a volte un po’ troppo vaghi e quasi sconclusionati. La scelta emotiva del disco, del resto, non lascia molte vie di fuga portando ad un inevitabile tedio che accompagna alcuni brani come “Sooner or Later (Time)” e “The Stool (Hope)”. Più animata ed espressiva “Tales from 1946 (Love)” che trascina in una musicalità da piacevole capogiro. Più introspettiva e gelida “Winter’s Sleep (Faith)” dove voce ed elettronica padroneggiano in un’eterea esperienza onirica. Corale e leggiadra “For the Bad Things (Hymn)” piuttosto deludente per esser la canzone che porta il nome del disco.
Ottimo esperimento musicale, il primo… La difficoltà ora sarà il non cadere in un’eco di musicalità e di concetti e di studiare al meglio nuove idee meno classicheggianti, più evolute e futuristiche non tralasciando il modo in cui lo fanno, intorno ad un tavolo di legno, rifugiati in se stessi ed in ciò che li circonda. -
Hymn For the Bad Things è un disco che fa rimpiangere l'assenza di un'etichetta indipendente come la Homesleep, per il fatto che sarebbe stato degno del suo catalogo, ed è questo il primo complimento che mi sento di fare e in realtà vuol dire molto altro ancora. Con quest'album si ripercorrere la storia di una determinata attitudine musicale che pian piano sta venendo a mancare in Italia, dove si ha come la sensazione di un continuo disorientamento tra chi produce e chi ascolta musica.
In questo senso i Mamavegas si presentano al primo vero appuntamento discografico con un lavoro impeccabile, con undici brani folk rock, alcuni se vogliamo vicini alle sonorità della band tedesca Get Well Soon, uno dei pochi paragoni che mi sento di fare e dato che in molti attendevano da anni una simile band in Italia credo la loro uscita farà parecchio parlare di sé. "Hymn For the Bad Things" è un concept album su i repentini cambiamenti che la vita ci propina non a caso queste sono le prime parole del disco: "if only you'd known what my mind was dreaming about". Ogni brano è accompagnato da un sottotitolo: Beauty, Time, People, Hope, Nature, Trust, Love, Faith, Happines, Hymn, Tales from Today che arricchiscono i testi di un'ulteriore senso.
L'album vanta la produzione artistica e il missaggio di Giacomo Fiorenza che è riuscito nell'arduo compito di plasmare tutti gli arrangiamenti portando ordine e armonia. Importante segnalare anche la presenza all'interno di questo sestetto di Matteo Portelli già attivo come bassista negli Yuppie Flu.
Un plauso va inoltre a 42 Records che ha creduto in una band molto distante da I Cani, Colapesce e Criminal Jokers, ma che impreziosisce l'orami ricco catalogo alzando decisamente il livello qualitativo e spingendo il disco verso una distribuzione estera che partirà da febbraio 2013 verso Germania, Spagna, Austria e Spagna da Rough Trade e addirittura negli Stati Uniti e Sudamerica da The Orchard. -
Tre Ep usciti negli anni scorsi, diversi cambiamenti di stile e di componenti e numerosi riscontri positivi sono alcune delle cose che precedono questo primo full length dei romani Mamavegas.
Una band che seguo ormai da un po’, cioè da quando ho avuto l’occasione di recensire il loro This Is The Day! I See..., sicuramente il loro disco migliore.
Questo disco invece prende molto la linea dell’ultimo Ep, e il suo suono più acceso ma controllato non lascia troppi spazi all’avvolgente atmosfera notturna.
Paesaggi più ovattati che pure riemergono in parte in brani come Argonauts (People), e meglio ancora in Happiness (The Way Home), dove l’estro potenziale della band trova spazio e costruisce cose belle.
La differenza più marcata è questa: i brani escono diretti, compatti, cioè limitati e chiusi, belli da ascoltare uno alla volta, uno ogni tanto.
Il risultato è un disco denso, piacevole ma al contempo impegnativo da ascoltare tutto di fila.
Comunque un buon lavoro, che stacca in maniera abbastanza decisa dal contesto musicale, pur non assurgendo ai livelli promessi da This is the day! I see...
Un disco che con gli ascolti migliora, lasciandosi scoprire in tutte le sfumature un po’ alla volta. -
“Non pensate alle cose brutte mentre siete a letto di notte, o anche di giorno, esse si moltiplicano e diventano molto più grandi di voi. Tanto che se poi ci pensate da svegli, le risolvete”. Il mio professore di storia dell’arte al liceo era un uomo saggio, lui snocciolava perle di saggezza come questa ogni giorno.
Questa mattina stavo pensando a una cosa brutta, nel letto, una roba durissima da risolvere. Poi ha suonato la sveglia, l’ho spenta e senza neanche togliermi i caccoli dagli occhi mi sono connesso a internet con il mio smartphone. Sempre con il pensiero a quella cosa brutta sono finito in questo link. Trattasi dello streaming dell’album dei Mamavegas, Hymn for the Bad Things, uscito ieri per 42 Records. Attenzione perchè in Italia la distribuzione è Audioglobe, all’estero (da febbraio) Rough Trade.
Con il ditone ancora caldo di coperte ho fatto click sul simbolo play accanto alla canzone numero 1, Mean and Proud (Beauty). Un pezzone della madonna che ricorda le migliori cose fatte da due gruppi che mi garbavano assai un tempo, Gomez e (soprattutto) Mojave 3. Sempre in quel link leggo che Hymn for the Bad Things è registrato all’Igloo Audio Factory di Budrio di Correggio e al White Lodge Studio di Roma, posti in cui, a giudicare da questo e da altri risultati partoriti, si lavora assai bene. A Budrio una volta hanno suonato i Ramones.
Lo stile è quella della migliore via per scrivere un disco oggi, fottendosene un bel pò delle mode del momento, delle varie musiche scarne e senza struttura che trionfano ora. Qui la struttura c’è, gli arrangiamenti e il suono escono da dio anche sul mio smartphone, il che è tutto un dire. Arpeggi di chitarra, pianoforte e momenti in cui i fiati salgono trionfali vincono sul nulla. E allora, largo al momento finale di Sooner or Later (Time). Proprio Sooner or Later (Time) mi ha fatto scoprire una cosa simpatica: se appoggio il mio smartphone sul mobile del bagno si amplifica e si sente in tutta la casa con dei bassi da paura. Detto questo, giuro che non parlo più della mia camera da letto e del mio bagno, potrebbe risultare scortese e fuori luogo.
Tra l’altro, il link con lo streaming di Hymn for the Bad Things è fico perchè si possono leggere anche i testi, che non sia mai che imparo un pò d’inglese in più. A proposito di inglese, i Mamavegas sono italiani come Trastevere ma la pronuncia che il cantante sfoggia potrebbe benissimo essere quella di un singer anglosassone.
Hymn for the Bad Things infila suoni nuovi in ogni pezzo. La delicatezza con cui vengono sviscerate le idee musicali è sublime. Non manca nulla, perchè a un tratto, in Solid Land (Nature), si sente anche l’eco di Lee Ranaldo, lontano anni luce da questo genere di musica, di arrangiamenti e di suoni. Gli inserti di basso e batteria nella seconda parte della canzone sfoggiano un’originalità niente male. Gli archi che, come si suole dire, entrano ed escono, sono accompagnati dai violini, che invece cavalcano e spezzano l’andamento dell’arrangiamento a questo punto (nel finale) divenuto corale.
Nella seconda parte il disco prende una piega più pop, con Black Fire (Trust) e Tales From 1946 (Love), anche un pelo troppo. Rispetto alle tracce precedenti, Tales From 1946 (Love) perde un pò di lucidità e scorre troppo veloce per reggere il confronto con quello che abbiamo ascoltato prima.
La svolta pop viene un pò (quasi) subito accantonata con Self-Portrait in Four Colours (Happiness) in cui tutto rende alla perfezione, con scelte di suono e passaggi che sembrano aggiornare il lavoro di band ottime ma a un tratto troppo concentrate sulla strumentazione, che diventava eccessiva. I Mamavegas la mantengono ma la asciugano pure.
Se incontrassi mai il mio prof. di storia dell’arte, gli direi professore, se le capita di pensare cose brutte mentre è nel letto, opponga resistenza, si alzi, cacci su Hymn for the Bad Things e balli, oppure pensi. Vedrà che molte cose le sembreranno più piccole. A me è successo un sabato mattina che ero ancora in pigiama. -
Dove risiede la grandezza di un complesso suggestivo come quello dei Mamavegas? Di sicuro nell’umiltà, nel desiderio di fare e produrre ciò che gli riesce meglio, senza eccessive pretese, ma con la voglia di sfornare puntualmente un progetto discografico che sia all’altezza e in linea con le aspettative di chi ha cominciato a seguirli fin dal bellissimo The Way To St. Ruiz del 2009.
Per loro ogni disco rappresenta una sfida importante, uno step da eseguire e sostenere con lucidità, entusiasmo. Del resto basta osservare quanto, dal primo Ep in poi, il loro stile sia maturato a vista d’occhio, accumulando e inglobando sempre più contaminazioni mai forzate, tantomeno inopportune, bensì naturali e pregevoli. Merito, questo, della notevole sensibilità dei sei componenti della band, gente che proviene da diversissime esperienze artistiche e che ha fatto della sperimentazione, della costante esplorazione sonora, la sua prerogativa principale, gente che, prima di tutto, sa suonare per davvero. Lo testimonia il fatto stesso che almeno un paio di loro siano degli ex jazzisti.
È chiaro dunque il fatto che quando alla base di una band del genere ci sono delle qualità tecniche considerevoli, dei grandi stimoli artistici, un’ottima inventiva ed un discreto affiatamento i risultati non possono che essere entusiasmanti. E la riprova, in tal senso, è insita nel nuovo disco del gruppo capitolino, pubblicato, come già accaduto in passato per le ultime due produzioni, dalla 42 Records. Hymn For The Bad Things, acquistabile dallo scorso 16 novembre e distribuito in Europa, a partire da febbraio 2013, da Rough Trade, è dunque il primo album vero e proprio rilasciato dall’eclettica band. Giunge a quasi due anni di distanza del precedente Icon Land, altro autentico gioiellino.
I Mamavegas lo hanno registrato all'Igloo Audio Factory di Budrio e al White Lodge Studio di Roma. Masterizzato da Andrea Suriani all'Alpha Dept. di Bologna, Hymn For The Bad Things si è infine avvalso del missaggio e della produzione artistica di Giacomo Fiorenza.
Cosa colpisce in particolar modo di questo lavoro? Sicuramente il sound globale, alquanto affascinante e curatissimo in ogni singolo fraseggio, sia nei passaggi maggiormente raffinati, sia negli episodi in cui predomina l’elettricità. Le sonorità risultano contemporanee e strizzano l’occhio al miglior indie-folk angloamericano odierno (Midlake, Bon Iver, Fleet Foxes ed Arcade Fire in primis) oltre che ad un post rock delicato, a tratti minimalista.
Visto che i Mamavegas non si fanno mancare proprio nulla, ecco che le tiepide venature pop risultano puntualmente dietro all’angolo. E l’elettronica? C’è anche quella, seppur in misura minore e, di conseguenza, mai del tutto invadente. Dunque è proprio questo continuo oscillare tra dimensioni elettriche ed (elettro)acustiche a dare quel qualcosa in più al disco, in cui sono poi gli arrangiamenti a svettare per forza di cose.
Geniali, ad esempio, i fiati malinconici presenti in Sooner Or Later (Time) e Self-Portrait In Four Colours (Happiness). Belle anche le convivenze spesso inaspettate tra sintetizzatori, archi e chitarre. Ma, più in generale, si può affermare che qualsiasi variazione, qualsiasi sviluppo è eseguito attraverso espedienti e soluzioni mai banali e prevedibili: ulteriore conferma, questa, delle numerosissime risorse musicali del sestetto capitolino. In tutto ciò, nonostante l’inarrestabile e costante sperimentalismo, il gruppo riesce comunque a proporre delle canzoni semplicemente graziose, orecchiabili ed accessibili a chiunque. Canzoni che entrano subito in testa, come nel caso di Solid Land (Nature) e di Black Five (Trust). Canzoni, infine, dotate di testi profondi e ispirati non soltanto a livello di liriche, ma anche da un punto di vista prettamente tematico.
Gli undici pezzi in scaletta sono inoltre legati da un unico concept. L’idea è in pratica quella di guardare a temi universalmente riconosciuti come positivi (tra cui l’amore, il successo, la bellezza, la speranza), proponendoli da prospettive spesso inusuali. Insomma: una lente al negativo che ha l’intento di esorcizzare le paure insite in ciascuna di queste esperienze. Se Tales From 1946 (Love) ruota intorno agli aspetti ossessivi e totalizzanti di un amore, la già citata Black Fire (Trust) tratta invece il tema della fiducia riposta nel prossimo che, messa alla prova dai grandi cambiamenti della vita, brucia in un fuoco scuro e svanisce.
Attenzione poi a Mean And Proud (Beauty), primo singolo ufficiale, dove si racconta il conflitto di un corpo che cresce perdendo inevitabilmente la sua innocenza.
Per chiudere: un disco più che valido, da rimediare al più presto e da contemplare a fondo per coglierne tutta la poesia, tutto l’impegno e la dedizione che i Mamavegas ci hanno messo dentro nel corso della stesura e della finalizzazione. - See more at: http://www.xtm.it/DettaglioMusicAffairs.aspx?ID=13667#sthash.XGrPwhrV.dpuf -
La 42 Records tira fuori dal suo cappello a cilindro un’altra bella band, i Mamavegas. Tanto di cappello all’etichetta de Icani e Colapesce dimostra ancora una volta di saperla molto lunga in fatto di band emergenti e musica alternativa in generale.
I Mamavegas sono un sestetto romano molto particolare, ognuno dei componenti proviene infatti da generi diversi, come jazz ed elettronica, che riescono a far coesistere in maniera gradevolissima nei loro brani.
Così il loro primo disco “Hymn for the band things” è una sorta di commistione di diverse suggestioni musicali, qualcosa di (finalmente) originale, che un po’ fa pensare a certe sperimentazioni degli anni Settanta che al giorno d’oggi sono solo un miraggio.
Quest’album viene dopo due EP, sempre prodotti con la 42 Records, e ruota attorno ad un concept molto particolare, cioè quello di proporre temi universalmente riconosciuti in modo positivo (come la bellezza, il successo, la speranza), affrontandoli però in modo diverso, che tenta di esorcizzare le paure insite in ognuna delle suddette cose.
Così abbiamo una rosa di brani molto suggestivi, come “The Stool”, dedicato alla speranza, l’agrodolce ballata sulla bellezza “Mean and Proud” e la visionaria “Winter Sleep”, la ninna-nanna della fede.
In realtà è difficile scegliere un pezzo piuttosto che un altro, perché si tratta di un disco veramente ben fatto e meritevole, come in giro se ne sentono purtroppo pochi.
La cosa che sicuramente salta all’occhio, anzi all’udito, è la grande bravura e preparazione di questi sei ragazzi, che forti delle loro esperienze pregresse, sono riusciti a non limitarsi ad un solo genere ma a spaziare e a sperimentare, dando vita a un progetto innovativo. -
I Mamavegas sono sei: tutto nasce da due fratelli, Daniele e Francesco Petrosino. Poi, a Roma, la formazione trova compimento con Marco Bonini, Emanuele Mancini, Andrea Memeo e Matteo Portelli. La loro è una musica che sa di freddo, di silenzi, di un camino scoppiettante che ti aspetta al tuo ritorno. Sono suoni dilatati, avvolgenti, mescolati a una voce sparuta qua e là che, come un faro, ti ricorda ancora dell’esistenza dell’umanità. Con un album uscito sul finire del 2012 (Hymn for the Bad Things, ndr.), i Mamavegas presentano le undici tracce all’Italia con 42 Records e con Rough Trade (a partire da aprile) in tutta Europa. Non è proprio un concept, ma quasi; ogni canzone infatti esorcizza la paura delle cose buone: bellezza, tempo, persone, speranza, natura, fiducia, amore, fede, felicità, storie.
Tra Sud e montagna.
Emanuele: Il progetto nasce a sud ma ormai siamo tutti a Roma. Il gruppo è composto da sei elementi, quattro romani e due (fratelli) campani. In realtà il progetto nasce proprio da loro e da una loro idea di suono. Un progetto musicale nato ancora più a sud della Campania, nelle montagne calabre, sui monti della Sila; posti bellissimi e un po’ fuori dal mondo.
Una storia.
Marco: A cavallo tra 2003 e 2004 i due fratelli iniziano a registrare alcuni brani quasi per gioco, si trasferiscono a Roma e poi, piano piano, si sono susseguite una serie di situazioni. Uno dei due è venuto a vivere a casa mia, aveva preso una stanza in affitto, e così ci siamo conosciuti. Ci è voluto poco a convincermi e mi ha inglobato subito in questo progetto intortandomi per bene. Poi è arrivato un altro coinquilino e anche lui è stato coinvolto. I restanti due sono arrivati nel 2008, 2009 e da quel momento la line up è stata completa. Da allora siamo andati avanti con cose auto-prodotte fino alla pubblicazione dei due Ep usciti nel 2010 e nel 2011 con 24 (l’etichetta digitale di 42 Records).
Creatività.
Emanuele: Essendo sei diversi elementi gli “scontri” non mancano ma ciò che ci tiene uniti è il suono, che è la matrice distintiva dei nostri lavori. Di noi si legge spesso che siamo “sei montanari calabresi che fanno folk in una baita”: in realtà non è proprio così. Anzi, il solo fatto di vivere a Roma ci allontana da quell’immaginario anche se quella matrice di suono è nata in quel contesto rupestre e in un certo senso per noi la montagna è un luogo della mente.
Marco: Nel nostro lavoro c’è il legno, quindi la materia, ma c’è anche tanta elettronica che ti allontana da quei riferimenti che sono il Sud e la montagna. Non ci sentiamo fisicamente legati ad un posto quando scriviamo, suoniamo, componiamo; in fondo il computer oggi te lo puoi portare dove vuoi.
Live Tour.
Emanuele: Stiamo lavorando parecchio sulle esibizioni live. Non abbiamo mai suonato all’estero ma stavolta abbiamo l’opportunità di avere il disco che esce quasi in tutta Europa grazie a Rough Trade (ad aprile) e che potrebbe essere un’ottima base per costruire un tour oltre confine. A questo proposito, anche la scelta di scrivere in inglese si dimostrerebbe fortunata. In molti ci hanno chiesto negli anni come mai abbiamo scelto questa lingua a discapito dell’italiano: la scelta è stata dettata da ragioni di fonetica che facilitano la scrittura. Adesso, con l’uscita del disco anche in Europa, tutto ha acquistato un suo senso e ci siamo detti che forse facevamo bene.
Marco: Inoltre il nostro suono è nato imitando un po’ quelle sonorità provenienti dal Nord Europa solo che noi, essendo partiti dalla Calabria, abbiamo affrontato un clash culturale e anche grazie a questo siamo riusciti a superare un certo manierismo. Rispetto ai primi Ep, dove indugiavamo di più su lunghe parti strumentali alla Sigur Rós, qui c’è un po’ più di pop che ci riporta a casa nostra e che sentiamo ci distingue un po’ di più.
Emanuele: Ma allora non ci capirà nessuno! All’estero risulteremmo troppo pop, in Italia siamo troppo internazionali… ci sarà un limbo dedicato alla nostra produzione!!!
Hymn for the Bad Things: il concept.
Emanuele: in realtà non è un concept album inteso alla King Crimson, il nostro album rimane una collezione di canzoni però c’è un concetto dietro che le unisce. Abbiamo voluto pensare al disco come a un’entità unitaria, non lo abbiamo costruito intorno a due, tre pezzi che funzionano. Abbiamo voluto portare avanti un discorso, sviluppando il tema centrale in tanti modi diversi e riteniamo che sia un valore aggiunto.
Marco: L’inno per le cose cattive significa cercare di vedere quello che noi generalmente giudichiamo come cose belle della vita, macro concetti come amore, speranza, con una lente al negativo per cercare di esorcizzare la paura che a volte si ha delle cose belle (che spaventano). Abbiamo pensato di associare ad ogni canzone un aspetto che potesse andare bene per rappresentare uno di questi macro concetti.
Emanuele: Musica e parole sono confluite insieme nel disco per cui alcuni testi si sono adattati alle musiche e viceversa e non c’è stata una divisione netta. Anche se, a livello di testi, alcune parole creano dei rimandi tra le varie canzoni. È una cosa molto velata, da veri intenditori (ride).
Marco: Anche la voce è intesa in fondo come uno strumento insieme agli altri. La voce doveva essere dentro agli strumenti fin dall’inizio, era una volontà quasi statutaria del gruppo, quindi niente di più lontano dal prodotto tipico italiano e anche da tutto l’immaginario folk.
La copertina.
Emanuele: La copertina dell’album è stata disegnata da uno studio di grafica che ci sta preparando anche il sito, su un’idea collettiva nostra e sviluppata da Eleonora Mastrangelo che ha fatto anche tutti i disegni che si trovano all’interno. L’idea era di rappresentare in maniera iconografica i concetti delle canzoni. Per renderla leggibile e minimalista è stato deciso di creare un’immagine con un tratto unico che si ricollegava all’idea del filo del telefono senza fili ma, a differenza del gioco, nella copertina i barattoli sono rivolti l’uno verso l’altro in una sorta di messaggio rimandato all’infinito. E poi abbiamo voluto, in maniera un po’ nostalgica, perché è così che siamo cresciuti, inserire i testi delle canzoni all’interno del booklet.
Generi e gusti.
Marco: Come Mamavegas consigliamo l’ultimo dei Dirty Projectors, i Fleet Foxes e St. Vincent perché ci accomunano tutti ma essendo in sei ascoltiamo tutti cose davvero diversissime.
Emanuele: Io ascolto cose di cui gli altri si vergognano… ma ascolto veramente tutto anche un po’ per lavoro. In generale per me un pezzo deve funzionare a prescindere dal genere: anche se una produzione è super pop, se è fatta bene per me è valida e vale la pena ascoltarla.
Marco: Poi in fase di creazione tutte queste differenze culminano in una lotta, volano i piatti ed è per questo che ci rinchiudiamo. Dallo scontro nasce una sintesi positiva: una bella media tra il folk e l’elettronica.
Emanuele: Se dovessimo rispondere alla domanda “che tipo di musica fate?” ci troveremmo (ed è capitato) un po’ in difficoltà e allora abbiamo risposto cose tipo: «Pop, però non è pop. Folk, qualcosa di elettronico. Però è corale…». Tornando al discorso di prima sulle nostre preferenze musicali: per me la musica si distingue in brutta e bella e se mi chiedono che musica facciamo gli rispondo «Noi facciamo musica bella». -
Il fatto che cantino in inglese conta poco: è nell’approccio che i Mamavegas non paiono italiani. Data la situazione stagnante della musica nostrana questo, è, anche se per default, un gran complimento. Il sestetto romano incide il suo primo lavoro lungo in forma di impegnativo ‘concept’:sinteticamente il brutto che si nasconde nei buoni sentimenti e nei buoni principi. C’era il rischio di apparire saccenti o presuntuosi, come capita a molti nostri artisti indie, e invece il sestetto romano inanella con grande levità canzoni ben strutturate, arrangiate in modo elegante, melodicamente fluide e al tempo stesso dotate di una strana, delicata solennità. Non siamo lontani dai livelli di un gruppo oggi superquotato quali gli islandesi Of Monsters and Men (manca solo il pezzone radiofonico tipo Little Talks) e non a caso Rough Trade ha deciso di distribuire i Mamavegas in Gran Bretagna. (Antonio Vivaldi)
77 (su 100) -
I Mamavegas sono un collettivo formato da sei musicisti provenienti dalle più disparate esperienze (jazz, musica elettronica, produzioni, colonne sonore), e vivono a Roma.
Dopo due Ep usciti per l’etichetta 42 Records, This Is the Day… I See e Icon Land, apprezzati da pubblico e critica, arrivano al loro primo disco di inediti, in uscita a novembre sempre per 42 Records: Hymn for the Bad Things.
Gli undici brani che compongono l’album sono legati da un unico concept. L’idea è quella di guardare a temi universalmente riconosciuti come positivi (tra cui l’amore, il successo, la bellezza, la speranza), proponendoli da un punto di vista inusuale. Una lente al negativo che ha l’intento di esorcizzare le paure insite in ciascuna di queste esperienze. Canzoni come Tales from 1946 (Love) che ruota intorno agli aspetti ossessivi e totalizzanti di un amore, Black Fire (Trust) sulla fiducia riposta nel prossimo, che messa alla prova dai grandi cambiamenti della vita, brucia in un fuoco scuro e svanisce, e Mean and proud (Beauty) che racconta del conflitto di un corpo che cresce e pur trovandosi a fiorire, perde la sua innocenza. Una comunicazione straordinaria fatta di moderni canti tribali che riconciliano definitivamente con le radici della terra.
Polifonie vocali e un gusto indiscusso per la melodia, synth e dettagli acustici che attraversano l’orizzonte sonoro da un estremo all’altro, intrecciando tutti gli umori da maledire, passando in rassegna la metà cattiva della mela dei sentimenti. Il collettivo lascia da parte le linearità cerebrali, per mostrare con spietata sincerità un percorso emotivo ineffabile e carico di un’autenticità fuori dal comune.
Confermano di essere un ibrido poetico, fatto di un basamento strumentale contaminato e contaminante, lungo tracce che sono bozzoli di liberazione e malinconia. -
Discography
The way to St. Ruiz EP - 2009 self released
This is the day... I see EP - 2010 42 Records
Icon Land EP - 2011 42 Records
Hymn for the bad things - 2012 42 Records/Audioglobe/Rough Trade
Song "Dark Globe" (Sid Barrett cover) for "This Is Not a Love Song Compilation #3" - 2014 To Lose La Track
Arvo - April 2015 42 Records
Photos
Bio
Mamavegas, a sixpiece based in Rome, are one of the most strengthened projects on the Roman independent music scene. Since forming in 2005 they have explored all sorts of different genres, from alternative rock to neofolk, all the while developing their own musical language, a cross between crystalline Northern European sounds and the warmer tones of Mediterranean music.
Following their selfproduced debut “The Way to St. Ruiz”, which lay the groundwork for their distinctive style, Mamavegas released two EPs, "This is the day... I see" and "Icon Land" on net label 24, the digital division of 42 Records. The year 2012 saw the release of their first official album, "Hymn for the Bad Things", on 42 Records. The album is a collection of pop songs built on complex structures in which the different influences of each band member meld and come together: the result is a mix of meticulously arranged choral folk tinged with electronica that stretches the pop song formula while retaining its fundamental classicism.
"Hymn for the Bad Things" receives good reviews and is greeted with a lot of warmth from the public, and Mamavegas find themselves spending the whole of 2013 touring festivals and clubs all over Italy. Their live shows bring out the full nature of the band, each performance a unique and engaging show that never fails to leave its mark on the audience.
In May 2014, and immediately befor reentering the studio to work on their second album, Mamavegas record a cover of Syd Barrett's Dark Globe, which is included in "This is Not A Love Song Compilation N°3", released on cassette tape by indie label To Lose La Track. The compilation also includes other covers by wellknown Italian independent artists such as Cosmo, Edible Woman and MiceCars.
The new Mamavegas album, "Arvo", was recorded at the Igloo Audio Factory in Correggio by Andrea Sologni, mixed by Giacomo Fiorenza and mastered by Andrea Suriani at Alpha Dept. in Bologna, with artistic production by Mamavegas and Andrea Sollogni. “Arvo” was released in Italy in April 2015 by 42 Records and it contains ten tracks.
In May 2015, they've been touring through Europe and they were one of the three Italian bands to play at Liverpool Sound City Festival, with the Flaming Lips, Swans, Belle & Sebastien and Many others. In July 2015 they played at Vasto Siren Festival alongside Verdena, Sun Kil Moon and Jon Hopkins and on the 25th of the same month they played in Rome for Villa Ada Incontra il Mondo Festival, opening for the historic Belgian band dEUS.
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